L’avventura odierna completa (o quasi!) la traversata compiuta nel settembre del 2023. In particolare, dopo l’apertura della via Valleferro-Ganeo, in discesa dalla Croda Rossa Piccola, scorgemmo una cavità collocata intorno a quota 2600m sulle pareti della Crodaccia Alta. Eravamo allora piuttosto provati e non cogliemmo l’occasione di andare ad esplorarla. Non solo; in occasione dell’apertura della via eravamo giunti ad una quota di 2730m, mancando la forcella di circa 150 metri più a O. Non si era quindi potuto scendere in Val Montejela per l’impluvio generato dalla forcella ma avevamo dovuto praticare una discesa piuttosto complessa su roccia completamente marcia. Oggi, invece, ritengo di aver individuato la via corretta per giungere in forcella dalla Val Montejela. La concatenazione in cresta con il punto di arrivo della Valleferro-Ganeo resta ancora da percorrere… passo dopo passo… vedremo di arrivarci! Compagno dell’odierna avventura è il buon Paolo, sempre fortissimo ed entusiasta, che scopre per la prima volta le bellezze della Val Montejela!
Relazione dell’avventura
Lasciata l’auto nei pressi di Malga Ra Stua, si seguono le indicazioni per salire in Val Montejela come da relazione “Esplorando Ra Montejela” del 19 ottobre 2020. Impressionante come oggi, rispetto alla precedente esplorazione di ottobre 2020, la valle sia sgombra da neve, anche alle quote più elevate. Entrati in Ra Montejela, si procede senza traccia obbligata salendo verso la sezione apicale settentrionale della valle. Si giunge al gradone roccioso che separa la Val Montejela “pianeggiante” da quella più “ripida” e solo qui troviamo qualche timida spolverata di neve, là dove il sole si affaccia ormai solo nelle ore centrali. La temperatura è piuttosto rigida, sotto zero, ed un leggero venticello aumenta la percezione del freddo. A mezzogiorno siamo nel lobo orientale ripido della valle e, solo allora, il sole inizia a scaldarci, complice anche la fatica che aumenta.
L’incedere è ora piuttosto faticoso, su fondo grossolano ed instabile, ma almeno il sole ci dona un po’ di tepore. L’ingresso della grotta è ora nitidamente visibile e, proprio quando ci troviamo a non più di una trentina di metri, una scarica rimbalza tra le pareti della Crodaccia per precipitare esattamente là dove dovremmo entrare. Questo non è un buon segno. Ho visto benissimo la traiettoria dei sassi e mi domando se sia il tipico canale che scarica di continuo oppure se il colpevole sia il fratello del camoscio che abbiamo poc’anzi incontrato nel mezzo della valle. Rifletto al riparo di un grande masso ed attendo Paolo per un confronto sul da farsi. Aspettiamo almeno cinque minuti e nulla più cade. Evidentemente, era il camoscio birbantello. Riprendiamo quindi la salita fino a proteggerci rasenti alla parete della Crodaccia Alta.
Un paio di passi sull’infido e ripido ghiaino e guadagniamo l’ingresso della grotta! Si tratta di un’unica camera profonda circa venti/trenta metri, alta fino a tre metri e larga massimo sei metri. Curiosi stalagmiti ghiacciati impreziosiscono il fondo della spelonca, dalla quale dominiamo un panorama sensazionale sulla valle sottostante.
Salutiamo quindi la nostra inedita grotta, domandandoci quando fu l’ultima volta che passo umano ne solcò l’ingresso. Ritorniamo al riparo dalle scariche rasenti alla parete della Crodaccia Alta e qui mi salta il matto 🙂 Di fronte a me c’è un varco serenamente affrontabile con un facile scrambling. Sebbene non vedo la forcella, il mio fiuto mi dice che dovrebbe essere proprio sopra di me… e decido quindi di iniziare la salita della parete per trovare la via alla forcella! Salgo di almeno una ventina di metri, portandomi leggermente sulla sinistra, verso una spaccatura che cela un impluvio ben poggiato… ed eccola, la forcella è sopra di me, a non più di una cinquantina di metri. E la via è incredibilmente “comoda”. Per quello che posso capire, la forcella sembra essere un piccolo terrazzino di terriccio rossastro, a quota 2723m, su cui si innestano la parete della Crodaccia Alta e la dorsale della Croda Rossa Piccola… parecchio distante dal punto di arrivo della via Valleferro-Ganeo!
Ecco la traiettoria di salita percorsa dalla Val Montejela.
Ed ecco, invece, la traiettoria di salita della Valleferro-Ganeo dalla grande cengia N della Crodaccia Alta, con rappresentazione del numero di tiri. È evidente quanto i due punti di arrivo siano parecchio distanti!!!
Lieto per la scoperta e, soprattutto, per la variazione sul tema non programmata, mi rimetto sui miei passi. Appena mi giro, mi rendo conto che sono salito con così grande entusiasmo e spinta che non mi è chiaro quale sia la via che ho percorso! Mi faccio una fragorosa risata per il grave errore commesso: dopo tutti questi anni di montagna fuori dai sentieri, realizzo di non essere nemmeno all’altezza di Hansel e Gretel! Improvviso quindi una discesa per la via che mi sembra più diretta e… finisco per incrodarmi in una parete che non ha proprio nulla del facile scrambling appena salito. Penso quindi alle parole del mio Maestro Edoardo Valleferro, tutte le volte che in discesa mi invita a fidarmi e a non farmi impressionare dalla percezione di vuoto, e, passo dopo passo, disarrampico fino a vedere Paolo nel ghiaione sottostante!
Atterro finalmente sul sicuro suolo della Val Montejela e, corricchiando sulle mobili ghiaie, raggiungo Paolo per una merita sosta e, soprattutto, per un meritato spuntino (solo nel quarto d’ora di disarrampicata devo aver perduto 2000 calorie). La discesa per la Val Montejala si svolge, come sempre, in un ambiente maestoso. Non un rumore, non un’anima viva disturba il nostro incedere. Da qualche parte, sulla Pala de Ra Fedes, sappiamo che il nostro amico camoscio ci sta osservando incuriosito. Sarà lo stesso camoscio solitario che avevo incontrato nell’ottobre del 2020? Sorrido, al pensiero. La discesa avviene come da precedente relazione, sino a giungere a Malga Ra Stua. All’arrivo, il sole è tramontato, il termometro segna già 0°C e sono le 16.00. Gli ultimi raggi di sole accendono di rosa le magiche rocce della Croda Rossa d’Ampezzo.
DIFFICOLTÀ COMPLESSIVA: EEA+. Salita del crinale tra la Crodaccia Alta e la Crodaccia: PD. Salita dalla cengia N della Crodaccia Alta sino alla forcella tra la Crodaccia Alta e la Croda Rossa Pizora: D-. Discesa dalla forcella alla Val Montesela: AD.
Traversata alpinistica fisicamente impegnativa, pressoché priva di indicazioni (bolli ed ometti), su roccia talvolta marcia; necessità di alternare progressione in conserva con soste da allestire con chiodi/friend, affrontando passaggi fino a III+ (non v’è presenza di spit).
DISTANZA: 15 km – DURATA: 9 h – DSL: 950 m D+
DATA: 6 settembre 2023
Premesse
È da un anno e mezzo che accarezzo l’idea di questa imponente traversata alpinistica, studiandone con emozione e cura tutti i più piccoli dettagli. Un itinerario in uno degli ambienti più remoti delle Dolomiti, che presenta innumerevoli incognite. In primo luogo, la traversata della grande cengia N che, a quota 2600m ca, congiunge la Crodaccia Alta con la Piccola Croda Rossa. Nessuno mai pare ve ne abbia accennato in alcuna sede. Interpellato il Maestro Fabio Cammelli a riguardo, ha dichiarato di non aver mai percorso la cengia in questione. In secondo luogo, ma solo per criterio cronologico, l’ascesa della parete che sovrasta la cengia, sino a raggiungere la forcella tra la Crodaccia Alta e la Piccola Croda Rossa… e la discesa sul versante opposto di Val Montesela (Ra Montejela). Nessuna relazione di tale itinerario è stata rinvenuta. A posteriori, infatti, posso confermare che trattasi sicuramente di una prima, che per semplicità ed in onore agli usi passati chiameremo “Valleferro-Ganeo”, auspicando di aver contribuito ad offrire un piccolo e modesto tassello alla storia alpinistica della Croda Rossa. Come in occasione dell’apertura della via “Cristallino Ovest” (vedi relazione), mi sento di esprimere le considerazioni che seguono, anche prevedendo ed anticipando i commenti di eventuali detrattori di per certo più competenti dello scrivente: 1) la via “Valleferro-Ganeo” non è la via più diretta e veloce per giungere alla forcella collocata tra la Crodaccia Alta e la Croda Rossa Pizora… anche perché in forcella non ci arriva nemmeno 😉 Conduce, infatti, in cresta, ca 170 m a O, in una posizione più elevata di ca una ventina di metri rispetto alla quota di forcella; 2) la via “Valleferro-Ganeo” non è la via più semplice per giungere sulla cresta che congiunge la Crodaccia Alta con la Croda Rossa Pizora. La via, infatti, si sviluppa per ca 280 m, da affrontare prevalentemente in arrampicata. Esiste, invece, una soluzione di salita alla cresta (NON alla forcella) apparentemente più agevole; la descrive Paolo Beltrame:
Da qui esiste una facile via di fuga che permette di raggiungere l’itinerario che collega la malga Stolla alla m.ga Cavallo [nda: Rossalm] (ovviamente questa via può venir percorsa anche in salita da chi vuole evitare la lunga cresta proveniente dalla Piccola Croda Rossa). Si scende per ghiaie in versante Nord e si imbocca, ben visibile dall’alto, una cengia ghiaiosa che, verso sinistra, conduce al crinale proveniente da La Crodetta.
Paolo Beltrame, 101% Vera Montagna – Dolomiti/Croda Rossa d’Ampezzo, Michele Beltrame Editore, 2008, pag. 147.
In conclusione, la traiettoria della via “Valleferro-Ganeo” è stata determinata sulla scorta di un attento esame della parete svolto in loco, alla base della parete, e non sulla cresta, prediligendo una linea che solcasse rocce sane e compatte anziché marci pendii detritici. Compagno di questa avventura sarà l’abile ed esperto Edoardo, con il quale ho già avuto il privilegio di condividere molte avventure e l’apertura di una nuova via.
Relazione dell’itinerario
Lasciamo l’auto nei pressi del Rifugio Pratopiazza (2000 m) ed imbocchiamo il sentiero n. 3 fino a giungere nel Cadin di Crodaccia (da me così nominato in occasione di precedente esplorazione con l’amico Paolo), conchiuso tra le strapiombanti pareti della Crodaccia Alta le franose rupi della Crodaccia. È chiaramente possibile raggiungere questo Cadin anche per altra via, da Cimabanche ovvero per il Troi de Milezinque (vedi relazione). Traversiamo quindi il Cadin di Crodaccia, mirando alla sella dove le compatte lastre della Crodaccia Alta si incuneano dentro la marcia e rossastra roccia della Crodaccia (fig. 1). Le ripide ghiaie risultano piuttosto stabili e risaliamo sino alla base della Crodaccia, dove una modesta cengetta, che diparte da una rossa terrazza panoramica (fig. 2), ci consente un incedere più agevole verso il bicolore canale di risalita (fig. 3).
Appena approdati sulla solida roccia della Crodaccia Alta, ci attende una divertente progressione sui grigi e levigati lastroni che, con una pendenza di circa il 45%, si innestano letteralmente dentro la terrosa materia della Crodaccia (fig. 4). È davvero singolare che due montagne appartenenti allo stesso gruppo possano mutare così drasticamente geomorfologia, a così breve distanza (fig. 5)… ebbene, questa è la Croda Rossa!
Procediamo con attenzione sui lastroni inclinati, sfruttando le generose fenditure che ci permettono di eseguire una divertente arrampicata (fino a II) (fig. 6 e 7), fino a che un settore dello spallone più gradonato smorza la pendenza e ci consente di tornare bipedi. Dalla Crodaccia, un camoscio ci osserva incuriosito… quante persone avrà mai visto su questo crinale!?! Intercettiamo anche un ometto, segnavia dell’itinerario di ascesa della Crodaccia Alta, e lo superiamo, tenendoci leggermente sulla destra, giungendo ora sulla sommità dello spallone, in un settore quasi pianeggiante (fig. 8). Nell’assoluto silenzio di questi luoghi inviolati, il nostro passaggio spaventa una lepre selvatica, che salta elegantemente tra le rocce: una vera e propria lepre montanara, a 2600 m di altitudine!!!
Siamo ora finalmente in vista della cengia (fig. 9): la tanto agognata cengia N della Crodaccia Alta. È da un anno e mezzo che me la figuravo… me la immaginavo più stretta ed inclinata. È invece un cengione enorme (fig. 10), e nella prima sezione ospita addirittura due piccoli catini. Traversiamo quindi questa distesa lunare, pressoché pianeggiante, con grande fatica nell’incedere, camminando su grandi ed instabili rocce (fig. 11).
Ci si dirige quindi alla base di uno sperone roccioso, là dove la cengia si restringe ed inizia a declinare verso il crinale de La Crodetta. Questo è il punto di attacco della nuova via “Valleferro-Ganeo”, a quota 2630 m ca, facilmente individuabile in quanto pochi metri a valle di una rientranza nella parete causata da un distacco di roccia (fig. 12). Il primo tiro ci porta a risalire il crinale dello sperone roccioso, su roccia marcia e terreno detritico, fino ad un robusto pinnacolo dove il primo di cordata può dare volta per assicurare sé stesso ed il secondo (fig. 13).
Il secondo tiro attacca la parete frontalmente e si sviluppa in verticale, per ca una ventina di metri (fig. 14). La roccia è ora compatta e sicura e l’arrampicata più aerea. Superata la parete, si giunge su una comoda cengia dove non mancano solide rocce sulle quali allestire una sosta (fig. 15) e dalla quale si può apprezzare nella sua interezza la cengia N di Crodaccia Alta poco prima percorsa (fig. 16).
Il terzo tiro da 30 m ci porta a spostarci verso destra, su una parete più poggiata e sempre di solida roccia (fig. 17 e 18), fino a raggiungere una ripida parete gradonata dalla quale già distinguiamo la stretta sella che andremo a raggiungere (fig. 19).
Procediamo ora in conserva, traversando il costone della parete su mobili ghiaie (fig. 20), fino a raggiungere una selletta terrosa, con tanto di ometto (fig. 21). È questo verosimilmente il punto di arrivo della via descritta da Paolo Beltrame, citata in premessa.
Gli ultimi metri di questa progressione in conserva sono i più delicati. Traversiamo la selletta e ci troviamo su una ripida ed insidiosa cengia detritica, in leggera discesa e completamente marcia (fig. 22). Con grande cautela, percorriamo la cengia, fino ad aggirare lo spigolo (fig. 23) e ci troviamo in un largo canale altrettanto marcio e dirupato.
Inizia ora il quarto tiro di arrampicata, alpinisticamente il più impegnativo. Sull’opposto lato del canale detritico, individuiamo un intaglio nella roccia che risale la parete e decidiamo di seguirlo (fig. 24). Procedere all’interno dell’intaglio si rivela tuttavia presto poco saggio: il terreno è così marcio che ogni appiglio si sgretola ed il movimento della stessa corda genera piccole scariche. Più sicuro è invece progredire sul bordo sinistro dell’intaglio, che appare più affidabile. Mi apposto comunque dentro una sporgenza nella roccia ed Edoardo attacca la parete con estrema delicatezza, quasi camminasse sulle uova (fig. 25)! Ciò nonostante, dopo una decina di metri, una bella roccia rossastra si stacca dalla parete e si proietta nel cielo esattamente sulla traiettoria del mio volto; abbasso repentinamente la testa e mi insacco dentro la sporgenza che avevo scelto come riparo. Sento il sibilo della roccia che mi supera e non posso che ringraziarmi per essere sempre così pedantemente attento alla sicurezza e, nel caso di specie, alla regola che impone al secondo di avere un buon riparo, soprattutto quando è sulla stessa linea del primo 😉 A metà del quarto tiro, superato il primo intaglio, se ne apre un secondo. Il superamento di questo secondo intaglio rappresenta forse il passaggio più delicato dell’intera progressione; lo si affronta in opposizione, cercando di portarsi il prima possibile sulla parete di destra, che presenta appigli più sani.
Ora la parete si fa più gradonata ed il quinto tiro si svolge su roccia nuovamente compatta, puntando leggermente a sinistra (fig. 26) fino a giungere ad una comoda cengetta pietrosa inclinata. La traversiamo in conserva fino a guadagnare un piccolo rilievo (2730 m) in cresta (fig. 27).
Siamo sul fil di cresta, il panorama è maestoso, la giornata magnifica; finalmente si apre ai nostri occhi la Val Montesela (Ra Montejela), sovrastata dalla cima della Croda Rossa, 3146 m (fig. 28 e 29). La forcella dove saremmo voluti giungere si trova a ben 170 m in direzione E rispetto a dove ci troviamo (fig. 30)!!! Probabilmente, dopo il 3° tiro, avremmo dovuto deviare verso E ed in un solo tiro saremmo giunti in forcella. La parete, tuttavia, appariva particolarmente ripida su quel versante e ci saremmo verosimilmente trovati ad affrontare passaggi di V. L’itinerario di ascesa che abbiamo preferito è certamente più lungo (ca 280 m di sviluppo e 100 m D+) ma indubbiamente più sicuro, specialmente per il primo di cordata che si muove su una parete non attrezzata.
Dopo una brevissima pausa ristoratrice, iniziamo la discesa. Affrontiamo i primi cinque metri zig-zagando tra facili roccette (fig. 31) fino a giungere su uno spigolo che conduce ad un terrazzino aereo, circa cinque metri sopra un canale detritico che taglia la parete in diagonale. Affrontiamo questi cinque metri verticali disarrampicando (fig. 32) (e qui perdo i miei occhiali da vista ritirati dall’ottico esattamente il giorno precedente. Se qualcuno volesse tornare…….. ;-).
Percorriamo quindi il canale in conserva, badando di traversarlo, alla fine, portandosi sulla sinistra (perché il canale finisce nel vuoto!), approdando su una parete di sfasciumi, colorata di muschi e chiazze di timida erbetta (fig. 33).
Si continua la discesa, sempre in conserva e sempre mirando verso sinistra, disarrampicando su facili roccette (fig. 34 e 35)
Si tratta ora di affrontare una ripida cengia detritica che taglia in diagonale la parete per una ventina di metri, sempre muovendo verso E. Allestiamo una sosta con un friend (fig. 36 e 37) e procediamo in disarrampicata per una quindicina di metri (fig. 38).
Ci si trova ora alle pendici di uno spigolo roccioso (fig. 39), che traversiamo alla base, mirando verso O, con un traverso molto delicato su roccia marcia, da superare con spaccata aerea sopra un canalino (fig. 40: il traverso indicato con freccia).
Siamo ora nel tratto finale, sopra uno stretto intaglio nella roccia marcia e friabile; si tratta di svolgere una calata di circa una ventina di metri dentro il canale che conduce finalmente sulle ghiaie alle pendici della Crodaccia Alta. Allestiamo una sosta su due solidi speroni rocciosi (abbandonato cordino e ghiera) (fig. 41) e scendiamo in disarrampicata dentro il canale che presenta il susseguirsi di tre gradoni alti un paio di metri ciascuno (fig. 42 e 43).
Il gioco è fatto 😉 Posiamo il piede sul ghiaione a quota 2708 m su un terreno squisitamente morbido, quasi la Croda Rossa avesse voluto premiarci per questa audace avventura esplorativa! Scendiamo quindi il ghiaione, tenendo la sinistra per evitare un evidente salto di roccia, su un comodo ghiaione dal fondo terroso che ammortizza il nostro stanco incedere (non durerà molto 🙁 ) (fig. 44). Nel piccolo catino alla base della Crodaccia Alta, corrispondente alla sezione apicale settentrionale della Val Montesela, in un luogo completamente inviolato, scorgo un oscuro pertugio che spicca nitido sulla luminosa parete (fig. 45). Mi fermo, titubante… per oggi è abbastanza, ma so che la curiosità tornerà a fare capolino nei prossimi anni!
La pendenza è ora diminuita e l’incedere sul ghiaione diventa particolarmente impegnativo, specie alla fine di una simile giornata. L’ambiente che ci circonda, tuttavia, ripaga ogni sforzo, e la maestosità dell’immenso ed imponente spazio incontaminato sovrasta ogni fatica, investe e riempie di silenziosa emozione.
Siamo ora giunti all’imbocco della Val Montesela e scegliamo di scendere a Malga Ra Stua per Ra Jeralbes, lungo il vecchio sentiero 0. Maggiori dettagli sulla via di discesa (anche, eventualmente, verso Lerosa) possono essere rinvenuti nella relazione “Esplorando Ra Montejela”.
Considerazioni finali
Probabilmente, questa è l’avventura esplorativa più impegnativa mai portata a termine. Non la più faticosa (la più faticosa è stata l’apertura della via “Cristallino Ovest“) né la più estrema quanto a esposizione (metterei al primo posto la traversata di Forcella Campale). È stata però la più lunga in ambiente sconosciuto, muovendosi nell’incertezza di essere sulla via corretta, nel dubbio che alla fine del tiro vi sia un altro possibile tiro o una liscia parete nel vuoto. È questa lunga permanenza in un ambiente vergine, su traiettorie mai solcate prima, che ha reso “impegnativa” l’esplorazione. Si aggiunga a ciò la variabile della roccia marcia, condizione ben nota quando ci si muove in Croda Rossa. È chiaro che una simile traversata, in ambiente tanto solitario e remoto, è rivolta ad un escursionista navigato, avvezzo ad avventurarsi in itinerari non segnalati né tantomeno attrezzati e, ovviamente, provvisto delle necessarie competenze tecniche ed attrezzature.
Esplorare non significa necessariamente sempre affrontare ripidi e dirupati pendii. Ci sono giornate in cui, o per ragioni meteorologiche o, banalmente, per rilassarsi, è possibile esplorare semplicemente camminando. È questo il caso presentato nell’odierno itinerario. Il meteo non promette bene e con Paolo si decide per una tranquilla passeggiata esplorativa senza caschi e imbraghi. L’obiettivo è una valle innominata, mai esplorata, conchiusa tra la Crodaccia Alta e la Crodaccia. Per arrivarci, eviteremo i sentieri numerati ma saliremo fino a Pratopiazza percorrendo una traccia singolare, spesso segnata con bolli blu, meglio nota come Troi dei Milezinque.
RELAZIONE DELL’ITINERARIO
Il Troi dei Milezinque pare così chiamarsi per l’altitudine dal quale parte. Lungo la strada statale che conduce a Carbonin, qualche tornante dopo il passo di Cimabanche, ecco una traccia che rimonta il costone erboso, inoltrandosi nel bosco (fig. 1). Superfluo sarebbe specificare a che quota ci troviamo 😉
Il Troi prende subito quota (fig. 2) ed in breve conduce al facile guado del Rio di Specie. Traversato il rio, si giunge ad un’amena radura. Qui potrebbero nascere i primi problemi d’orientamento: qualche bollo blu, infatti, è presente, ma è posizionato sul lato a monte dei tronchi e non su quello a valle. In ogni caso, giunti alla radura, è necessario deviare a destra, direzione NE (fig. 3). Tale soluzione permette di raggiungere in breve il sentiero CAI n. 37 o la mulattiera, indicativamente nei pressi del quarto tornante.
Montati sul sentiero n. 37, ci si potrebbe accontentare di procedere comodamente su nitida traccia fino al rifugio Vallandro… ma che gusto ci sarebbe… non sarebbe più un’esplorazione in stile Windchili! L’idea di base è che il Troi dei Milezinque sia invero la prima traccia storicamente aperta per arrivare a Prato Piazza. Una traiettoria diretta e veloce in mezzo al bosco, solo successivamente soppiantata dalla carrareccia e, ancora successivamente, dal sentiero CAI 37 (che di fatto si modella sulle linee della carrareccia). Pertanto, nei pressi del quinto tornante della carrareccia, ci addentriamo nuovamente nel bosco alla ricerca di una traccia e, dopo vario ravanage sul ripido versante orografico sinistro del Rio di Specie, ci imbattiamo finalmente in una morbida dorsale solcata da piuttosto evidente traccia (fig. 4).
In breve, la traccia ci conduce fuori dal bosco, in una vasta radura prativa a valle della carrareccia (fig. 5). Procediamo quindi in direzione NW su comodi prati fino a che, in prossimità della curva a gomito a destra della carrareccia, si innesta una nitida traccia proveniente da un rilievo barancioso. La imbocchiamo e, facendoci strada tra i mughi, ci troviamo presto ad una quota di un cinquantina di metri a valle rispetto al Rifugio Vallandro, sopra una profonda ed angusta forra rocciosa che accoglie i primi salti del Rio di Specie (fig. 6).
Lasciata alle spalle la ripida forra, ci si apre di fronte un panorama delizioso: i noti verdi prati di Prato Piazza ci abbracciano e l’occhio non può che rilassarsi e godere di questo bucolico panorama (fig. 7 e 8).
Traversando i prati senza via obbligata, ci teniamo leggermente a sinistra, puntando l’ora ben visibile Croda Rossa, fino a giungere ad uno steccato di legno. Lo saltiamo e scendiamo attraversando nuovi prati, fino a montare sul sentiero CAI n. 18. Procediamo per poche decine di metri sul sentiero n. 18, superando sulla sinistra il ponticello di legno che conduce alla Val dei Chenòpe e giungendo in breve ad una radura prativa dove sorgono alcuni casoni di legno. Superiamo un nuovo steccato di legno e, con deviazione sulla sinistra poco dopo una magnifica veduta da cartolina (fig. 9), giungiamo alla confluenza di ruscelli poco sopra Malga Stolla. Incredibile pensare che, solo tre settimane prima, questa confluenza era popolata di artistici ometti creati da qualche esperto e paziente artista dello stone balancing (vedasi fig. 6); qualche giorno fa, un violento acquazzone deve aver riempito d’acqua questa confluenza, spazzando via tutte le creative opere.
Una volta attraversato il torrente, seguiamo il sentiero CAI n. 3 fino ad imbatterci in un evidente bivio (fig. 10). Sulla destra, indicato con tanto di freccia su masso, prosegue il sentiero n. 3. Sulla sinistra, invece, si sale sino a sbucare in una nuova radura prativa, ai piedi della brulla collina che dà accesso al Cadin di Croda Rossa. Teniamo quindi la sinistra al bivio ed iniziamo ad inerpicarci faticosamente tra roccette e zolle erbose (fig. 11), puntando leggermente verso destra, in direzione dello sperone orientale delle Cime Campale. La brulla collina ai piedi del Cadin di Croda Rossa è letteralmente cosparsa di residuati bellici; sappiamo, infatti, che venne utilizzata durante la II guerra mondiale come poligono di tiro e, a quanto pare, mai adeguatamente bonificata!
Giunti ai piedi dello sperone orientale delle Cime Campale, ci dirigiamo verso O, fino a trovarci al cospetto dell’imponente fronte del rock glacier ospitato nel Cadin del Ghiacciaio (fig. 12). Da questo punto, già si intravede il Cadin di Crodaccia, meta dell’odierna escursione, ma una breve divagazione all’interno del Cadin del Ghiacciaio è d’obbligo. Ci portiamo quindi nei pressi della metà del Cadin del Ghiacciaio, dove la fronte diminuisce di altezza, ed attacchiamo il ripido piano detritico (fig. 13).
Ed eccoci sopra il rock glacier! L’ambiente è suggestivo, affascinante, selvaggio. Sono lieto di vedere che Paolo nutre lo stesso entusiasmo e percepisce le stesse emozioni che questo luogo, già esplorato tre settimana fa, suscita in me. L’ultima volta che ho esplorato il rock glacier ospitato nel Cadin del Ghiacciaio mi sono trattenuto nella sezione apicale, ai piedi di Forcella Campale, per poi scendere direttamente nel lobo settentrionale. Il rock glacier, infatti, è suddiviso in due lobi: un lobo settentrionale ai piedi della Crodaccia Alta ed un lobo meridionale ai piedi delle Cime Campale. Maggiori approfondimenti sulle caratteristiche di questo rock glacier e sulla storia delle ricognizioni ad opera dei glaciologi possono essere trovati leggendo la relazione della traversata di Forcella Campale, compiuta tre settimane or sono. Nella giornata odierna, visto che il tempo sembra reggere, mi preme esplorare la linea di separazione tra i due lobi per verificare la presenza di affioramenti di ghiaccio, solo minimamente rilevati in sede di precedente ricognizione. Ci addentriamo quindi nel Cadin del Ghiacciaio, cercando di individuare la linea di demarcazione tra i due lobi… e presto la troviamo, distinguendo chiaramente una depressione lineare che solca longitudinalmente il Cadin del Ghiacciaio, coperta da ghiaie più “fresche”, segno di recente e costante movimento (fig. 14). Seguiamo dunque questa linea per poche decine di metri ed ecco i primi affioramenti di ghiaccio: il margine sinistro del lobo meridionale del rock glacier è completamente esposto, mettendo in luce piani inclinati, alti diversi metri, di puro ghiaccio compatto (fig. 15, 16 e 17). Altro che ghiaccio interstiziale!!! Questo rock glacier è al contrario un vero e proprio ghiacciaio coperto, solo in superficie, da un mantello detritico!
Conclusa la ricognizione lunga linea centrale di suddivisione in due lobi, torniamo indietro, camminando ora sul lobo settentrionale del rock glacier. In breve, il nostro orecchio è catturato da sinistri suoni di crolli. Fortunatamente, io conosco già la causa di questi inquietanti rumori e tranquillizzo Paolo, che già sta scrutando con occhio vigile le vicine pareti: siamo ormai nei pressi del laghetto termocarsico ed i rumori che s’odono sono invero causati dal materiale detritico che dai margini estremi della riva crolla in acqua rotolando lungo le pareti ghiacciate. Nonostante abbia da poco visitato questo luogo, la meraviglia resta tale quale durante la prima esplorazione (fig. 18 e 19). Osservando le alte e compatte pareti di ghiaccio del laghetto, si ha ulteriore conferma che il rock glacier ospitato nel Cadin del Ghiacciaio altro non è che un vero e proprio ghiacciaio coperto da un sottile strato di detriti.
Una curiosità: a quanto pare, nel 2015 il nostro laghetto termocarsico aveva un fratellino! Evidentemente, il tappo di ghiaccio sul fondo del laghetto si dev’essere sciolto, facendo così defluire l’acqua nei meandri del ghiacciaio!
Terminata la contemplazione del laghetto termocarsico, ritorniamo ora all’obiettivo della nostra missione: l’esplorazione della valle conchiusa tra la Crodaccia Alta e la Crodaccia. Dal laghetto, fronte a valle, ci teniamo sulla sinistra fino ai piedi dello sperone orientale della Crodaccia Alta ed intravediamo pure un ometto! Costeggiamo quindi la parete rocciosa e, girato l’angolo, eccoci entrati nella valle innominata, d’ora in poi battezzata Cadin di Crodaccia (considerata la sua collocazione, dubito qualcuno possa sollevare obiezione di sorta!) (fig. 20 e 21).
Il Cadin di Crodaccia si presenta come una piccola valle celata, sul versante meridionale, dalle alte pareti rocciose della Crodaccia Alta e, sul versante settentrionale, dalle ghiaiose pendici della Crodaccia. Nel versante occidentale del Cadin di Crodaccia, là dove le compatte rocce della Crodaccia Alta si intersecano con le friabili colleghe della Crodaccia, si profila una forcella, non segnata sulla cartografia Tabacco. Non è da escludere che, percorrendo tale forcella (fig. 22), si riesca a trovare una nuova via per giungere in cima alla Crodaccia Alta oppure, più semplicemente, per compiere una traversata dal Cadin di Crodaccia al Cadin conchiuso tra la Croda Rossa Piccola e La Crodetta. Oggi, tuttavia, il meteo non ci permette ulteriori divagazioni e ci rimettiamo presto sulla via del ritorno. Scendiamo quindi lungo la ripida collinetta che confina con l’ancor più ripida fronte del rock glacier e ci immettiamo presto nel sentiero CAI n. 3. Di lì a breve, giungiamo a Malga Stolla per un pranzo ristoratore!
Giusto il tempo di assaporare un delizioso tagliere di affettati ed il cielo inizia a coprirsi minacciosamente… finiamo in fretta e via di gran carriera traversando i prati di Prato Piazza sferzati da un piacevole vento fresco (fig. 24 e 25)! Scendiamo alternando tratti di sentiero n. 37 con pezzi del Troi dei Milezinque, ormai sotto una debole pioggia e contemplando un temibile temporale sul circo glaciale del Cristallo le cui pareti, in pochi minuti, diventano completamente innevate (fig. 26 e 27)! Tempo di arrivare alla macchina ed esplode il diluvio universale 😉 Anche questa volta ci è andata bene!
Ringrazio Paolo per la sempre magistrale regia nel montare il video, sintesi perfetta dell’avventura trascorsa!
DIFFICOLTÀ COMPLESSIVA: EEA+. Calata di Forcella Campale: AD+. (Dovendo, come accaduto, risalire in arrampicata il tetto strapiombante, corrispondente al 4° tiro: D+).
Traversata alpinistica mediamente lunga e fisicamente non troppo impegnativa. La calata da forcella Campale al Cadin del Ghiacciaio si sviluppa su ca 150m, 100m D-, con necessità di effettuare almeno 6 calate (4 appoggiate, 1 strapiombante, 1 ripida). Nella sezione centrale, in disarrampicata, si raggiungono difficoltà di V grado. Da non sottovalutare la condizione della roccia, spesso marcia, che rende più difficoltosa la disarrampicata.
DISTANZA: 14 km – DURATA: 8,30 h – DSL: 1200m D+
DATA: 17 luglio 2022
PREMESSE
Una forcella è un valico che separa due valli. È quindi, idealmente, il punto di transito per passare da una valle all’altra… idealmente… vi sono infatti forcelle che, se da un versante si raggiungono più o meno agevolmente, dall’altro terminano nel vuoto. Io le chiamo ironicamente “forcelle terra-aria” 🙂 La Croda Rossa pare essere generosa quanto a forcelle terra-aria. La più nota è sicuramente Forcella Nord, la forcella più alta sciabile sulle Dolomiti. Si accede faticosamente su due piedi dalla Val Montejela ma si scende a quattro zampe dal lato di Forcella Nord. È un percorso di sci alpinismo piuttosto estremo ma risulta fattibile e se ne trova recensione. Altro esempio è poi Forcella Campale (Gumpalscharte). Vi si accede salendo un ripido ghiaione dal Cadin di Croda Rossa ma, giunti in forcella, si potrà scendere fino al Cadin del Ghiacciaio? È questo il quesito che Edoardo ed io ci siamo posti prima di intraprendere l’avventura. Descrizioni dell’itinerario non se ne trovano; questa è la prima relazione ad essere pubblicata. Prima di cimentarmi nell’avventura, ho ovviamente cercato di raccogliere tutte le informazioni del caso (pochissime). Un ringraziamento particolare al Maestro d’avventura dolomitica Paolo Beltrame e a Suo figlio che, disponibilissimi, hanno puntualmente riscontrato la mia richiesta di approfondimento sull’itinerario, confermando che la discesa di Forcella Campale ha carattere puramente alpinistico. Un ringraziamento speciale anche a Riccardo, che mi ha fornito i primi spunti di studio condividendo le foto del Cadin del Ghiacciaio e di Forcella Campale scattate dalla Crodaccia. Obiettivo della presente esplorazione non è, infine, esclusivamente appurare la fattibilità della calata da Forcella Campale al Cadin del Ghiacciaio ma anche verificare le condizioni dei due rock glacier collocati rispettivamente nel Cadin di Croda Rossa e nel Cadin del Ghiacciaio. Non si deve infatti dimenticare che l’Elenco dei Ghiacciai Italiani del 1925 rilevava l’esistenza del “Ghiacciaio di Croda Rossa”, cui emissario era il Rio di Stolla. Nel 1957, tale ghiacciaio risultava estinto.
RELAZIONE DELL’ITINERARIO
Lasciata l’auto nei pressi della casa abbandonata poco dopo il passo di Cimabanche, sulla sinistra, (1523m), si imbocca il sentiero CAI n. 18 e si risale la Val di Chenópe (Knappenfusstal) (dall’ampezzano chenòpo “minatore”, in tedesco knappe) sempre costeggiando il greto del torrente (fig. 1 e 2).
Dopo circa 45 minuti, si supera un piccolo ponte di legno e, nell’intersezione evidente con una mulattiera, si tiene la sinistra, raggiungendo in pochi minuti un’amena radura prativa, la cui vista si apre sul Cadin di Croda Rossa (fig. 3).
Si procede quindi lungo l’evidente mulattiera sino ad uno steccato di legno che delimita l’area di pascolo. Entrati nella recinzione, è possibile alternativamente tenere la destra, seguendo il sentiero, oppure, senza via obbligata, risalire nel bosco rado, seguendo le umide zolle che indicano la presenza di una sorgente, sino a giungere ai ruderi di una casera (fig. 4).
Superato il rudere, si continua in direzione NO sino a montare sul sentiero n. 3. Si guada là dove più rii confluiscono, non potendo non ammirare i giochi di stone balancing realizzati da qualche mano ferma e paziente (fig. 5 e 6).
Si tiene ancora il sentiero n. 3, per poche decine di metri, fino a giungere ai piedi di uno sperone roccioso; da qui, una debole traccia devia a sinistra, in direzione SO, fino a giungere ad una radura prativa particolarmente amata dalle vacche al pascolo. Si traversa la radura e ci si inerpica, senza via obbligata, su per una collinetta pressoché spoglia, in direzione SO (fig. 7). Impressionante il numero di residuati bellici, alcuni apparentemente piuttosto recenti, al punto da nutrire qualche perplessità sul fatto che risalgano alla prima guerra mondiale. Un bossolo reca la data del 1945… dovremo approfondire quale evento bellico ha coinvolto questo versante della Croda Rossa durante la seconda guerra mondiale…
Guadagnata la sommità della collinetta, si entra ora nel Cadin di Croda Rossa, tenendo la destra, ai piedi delle Cime Campale, su levigatissima roccia talvolta solcata dai tipici karren, parimenti molto comuni sul versante occidentale della Croda Rossa, in zona Fosses. È evidente il lavoro di erosione della roccia svolto dall’estinto ghiacciaio che, una volta, occupava il Cadin di Croda Rossa (fig. 10). Sorprende, inoltre, la qualità della roccia di Cima del Pin e delle Cime Campale, sul versante del Cadin di Croda Rossa; contrariamente alle aspettative, la roccia si presenta estremamente compatta e levigata, per nulla marcia; terreno ideale per gli amanti dell’arrampicata (fig. 11).
IL ROCK GLACIER NEL CADIN DI CRODA ROSSA(già “Ghiacciaio del Pin”)
Pochi metri ancora e giungiamo ai piedi della fronte del rock glacier del Cadin di Croda Rossa (fig. 13). Il Catasto dei Rock Glaciers delle Alpi Italiane del 1997 stabilisce che il Cadin di Croda Rossa ospita un rock glacier la cui fronte si attesta intorno ai 2285m e la parte sommitale intorno ai 2385m, occupando una superficie di circa 130mila mq. Tale rock glacier, risalente ad un’epoca anteriore alla Piccola Età Glaciale (1300 d.C.), definito nel 1974 “Ghiacciaio del Pin” (Pin Ferner) dal glaciologo Corrado Lesca (C. Lesca, Bollettino del Comitato Glaciologico Italiano, 22, 1974, pag. 121), presenta solchi e creste trasversali, una fronte marcata ed un lobo ben sviluppato. Tuttavia questo rock glacier presentava nel 1997 una “uncertain activity“. Una decina d’anni più tardi, i ricercatori, a seguito di rilevamenti svolti tra il 2005 e il 2007, rilevavano che «Il rock glacier di Cadin di Croda Rossa non mostra affioramenti di ghiaccio e presenta strutture interne differenti indicando che probabilmente si tratta di un rock glacier con ghiaccio interstiziale (ice-cemented rock glacier)». (K. Krainer, K. Lang, H. Hausmann, Active rock glaciers at Croda Rossa/Hohe Gaisl, Eastern Dolomites (Alto Adige/South Tyrol, Northern Italy), in Geogr. Fis. Dinam. Quat., 33 (2010), 25-36).
Confermando le osservazioni svolte dai ricercatori, ad oggi possiamo confermare che la fronte del rock glacier è di per certo ben marcata (fig. 13), con una pendenza di 35-40° ed un’altezza di 50m, e si attesta a circa metà della strettoia tra la Punta del Pin e le Cime Campale nel Cadin di Croda Rossa. Non è stata pervenuta alcuna acqua di fusione nell’area ai piedi della fronte né alcun ghiaccio esposto una volta rimontata la fronte ed esplorata la superficie del rock glacier. Si conferma, invece, che il rock glacier è traversato longitudinalmente da evidenti solchi e le rocce sui cui progrediamo sono particolarmente mobili (fig. 14). Nei pressi della sezione sommitale del rock glacier, infine, è presente un’area innevata che, tuttavia, non sembra appartenere al ghiacciaio quanto, piuttosto, pare essere il lobo di un canale valanghivo proveniente dalla Croda Rossa, le cui nevi evidentemente sono perenni (fig. 15).
LA TRAVERSATA DI FORCELLA CAMPALE
Sebbene la salita a Forcella Campale appaia dal rock glacier piuttosto ripida (fig. 16), si rivela in realtà meno faticosa di quanto previsto. E pensare che Ugo di Vallepiana, nel 1925, scriveva che Forcella Campale si risaliva faticosamente “attraverso pendii di detriti della peggior specie“!!! (Ugo di Vallepiana, Dolomiti di Cortina d’Ampezzo, dal Cristallo per le Tofane alla Croda da Lago, Guide del Club Alpino Italiano, sezione unversitaria, 1925). Noi scegliamo di attaccare il ghiaione che scende dalla forcella sulla destra, cercando di poggiare i piedi sulle rocce più grandi e stabili (fig. 17).
L’obiettivo è abbandonare quanto prima le mobili ghiaie e giungere ad una successione di speroni rocciosi che, nei pressi della sezione centrale della salita, ci forniranno più solido appiglio. Guadagnata la roccia, saliamo piacevolmente facendo scrambling (fig. 18, 19 e 20).
Giunti in forcella Campale, emblematica è l’espressione di Edoardo 😉
Sotto di noi, si sviluppa un canale bello marcio intorno a poco più di 50° di inclinazione (fig. 22). Ma, sorpresa delle sorprese, ci rendiamo subito conto che il nostro intento di aprire una nuova via non potrà essere coronato: troviamo infatti uno splendido e lucido spit sulla roccia a sinistra della forcella!!! Facciamo quindi una foto di rito in forcella ed iniziamo ad imbragarci (fig. 23). Sul versante opposto a noi, la Forcella Nord scende ripidissima e scariche di sassi che rotolano come proiettili nel Cadin del Ghiacciaio echeggiano minacciosi sulle pareti (fig. 24).
Ci appropinquiamo quindi allo spit, aggirando con forte esposizione un enorme masso pericolante. Lo spit si trova a circa 2 metri di altezza, subito dopo il masso (fig. 25).
“Longiato” sullo spit, lascio ad Edoardo l’onore di aprire la calata! Il fondo del canale si presenta quasi terroso, totalmente friabile. Edoardo si cala per circa una ventina di metri fino a che, sul bordo di destra del canale, individua un secondo spit (fig. 26 e 27). Tocca ora al sottoscritto: infilo il secchiello, mi faccio un machard ed inizio la calata che concludo in un paio di minuti.
Ogni recupero di corda deve essere effettuato con la massima cautela poiché smuoviamo terreno che ci rotola addosso (fig. 28).
Con ulteriori due “calate appoggiate”, di circa 20 e 35 metri, approdiamo ora su un grande cengione ghiaioso, che segna il termine del canale, i cui bordi degradano nel vuoto (fig. 29 e 30). Al centro di questa grande cengia, sulla parete, troviamo un chiodo cui ci leghiamo per scendere fino al bordo della cengia (fig. 31); si tratta ora di scendere di circa un metro sulla parete, in totale esposizione ma su comodo gradino e beneficiando di un appiglio su stretta fessura trasversale, fino a trovare un piccolo pulpito dove ci attende una sosta già allestita con spit + chiodo (fig. 32).
Giunto alla sosta, attacco il moschettone della longe allo spit e tiro un sospiro di sollievo! Ora Edoardo ha recuperato la corda mi raggiunge sul piccolo pulpito (fig. 33).
Ci prepariamo per le manovre di calata e lanciamo la corda nel vuoto. Questa volta, però, non vediamo dove la corda atterra! La roccia sotto di noi, infatti, precipita con un probabile tetto (a breve scopriremo che l’ipotesi era ben fondata!) (fig. 34). Non c’è altro da fare che andare in perlustrazione. Edoardo aumenta le spire del machard e si cala fino a scomparire nel vuoto. E qui inizia un’interminabile e stremante attesa. Sono immobile su un pulpito che non mi concede grande libertà di movimento. Siamo all’ombra (ad occhio non batte mai il sole in questo tratto di parete) e tira un bel venticello che dalla valle si incanala nella Forcella Campale. Maniche corte e smanicatino non si rivelano la scelta più azzeccata in questo tratto di calata; tuttavia, sono così esposto che non mi fido di togliere lo zaino e cercare il goretex (che sicuramente sarà sotto di tutto)… quindi inizio a soffiare aria calda sulle mani, badando di non smuovere qualche sassolino su quel mezzo metro di balconcino. Finalmente, arriva il via libera di Edoardo che, nel frattempo, è riuscito ad atterrare e trovare un punto sicuro una decina di metri sotto il tetto. Controllo ripetutamente che le ghiere dei moschettoni siano ben serrate intorno al secchiello e al machard e… via, calata nel vuoto, per circa venticinque metri.
Ed eccoci al termine della calata strapiombante, superata una grotta dalle cui fessure scendono gocce che si trasformano in un rigolo d’acqua (fig. 35). L’atterraggio avviene su un comodo e sicuro balconcino, che mi permette di togliere lo zaino e mettermi una maglia tecnica per recuperare un po’ di calore! Ci attendono però ora due sorprese: la prima, non troviamo altri spit e, sotto di noi, v’è un bel secondo ripido salto. Inoltre, in fase di recupero della corda con il sagolino, qualcosa non funziona e le corde restano bloccate! Quest’ultima è davvero una bella rogna ed Edoardo è costretto a risalire la parete strapiombante su roccia marcia con passaggi di V grado, liberare le corde e ridiscendere (fig. 36).
Liberate le corde, dobbiamo ora pensare a come calarci poiché, nonostante le esplorazioni della parete nei dintorni, non troviamo davvero alcun chiodo infisso (fig. 37) Tale circostanza fa riflettere: evidentemente, la via è stata chiodata con gli spit da qualche sciatore nel periodo invernale. Terminata la parete strapiombante, infatti, è verosimile pensare che lo sci-alpinista abbia affrontato il pendio rimanente, fino al Cadin del Ghiacciaio, sciando. L’accumulo di neve, infatti, tenderà sicuramente a smorzare quei primi metri al 90/100% di pendenza che ci attendono; poi, dopo una decina di metri di dislivello, la parete inizia a gradonarsi, diminuendo così drasticamente l’inclinazione e rendendo ben appetibile la discesa. Noi, però, non abbiamo la neve, e quella decina di metri totalmente aerei ci obbligano a trovare una soluzione sicura per essere superati. È quindi il momento di tirare fuori i chiodi ed allestire una sosta (fig. 38).
Nel mentre Edoardo martella, la Crodaccia Alta ci osserva, con le sue tipiche “tasche paleocarsiche” che quasi le conferiscono grottesche sembianze umane (fig. 39). Nel sottofondo, scariche di sassi dalla Forcella Nord si alternano a sinistri crolli nei pressi del lago del Cadin del Ghiacciaio (fig. 40).
Una volta allestita la sosta, Edoardo si cala per l’ultima ripida parete. Io controllo attentamente i chiodi, verificando che non si muovano di un millimetro (fig. 41).
Tocca quindi a me scendere e supero abbastanza agevolmente gli ultimi venti metri di parete verticale approdando su un comodo gradone di ghiaia (fig. 42).
Ora il gioco è fatto e tiriamo un sospiro di sollievo!!! (fig. 43 e 44). Per affrontare gli ultimi trenta metri di gradoni friabili, scendo io per primo ed Edoardo mi fa sicura piantando un ultimo chiodo, giusto perché ogni appiglio che tocco mi resta in mano 😉
Giungo quindi a fine corda e mi slego, procedendo sugli ultimi gradoni friabili prima di saltare sulle ghiaie del Cadin del Ghiacciaio e portarmi fuori tiro dalle eventuali scariche che Edoardo dovesse smuovere discendendo.
IL ROCK GLACIER NEL CADIN DEL GHIACCIAIO
Appena messo piede sul Cadin del Ghiacciaio, mi rendo conto che la parte apicale è effettivamente un enorme nevaio su cui le sovrastanti cime scaricano continuamente materiale (fig. 46). La parete della Cima Campale a ridosso della via di calata, in particolare, appare marcissima e devastata dai crolli (fig. 47). Sul versante opposto, la Forcella Nord scarica costantemente materiale. Ci allontaniamo quindi velocemente da questa area tormentata dalle frane e, con divertente sciata sul nevaio inclinato, ci dirigiamo verso il centro del Cadin del Ghiacciaio (fig. 48).
Il sopra citato studio di Krainer, datato 2010, conferma le nostre osservazioni, concludendo che :
«le strutture interne (piani di scorrimento) e particolarmente gli affioramenti di ghiaccio nella parte superiore del rock glacier di Cadin del Ghiacciaio indicano chiaramente che questo rock glacier si è sviluppato da un ghiacciaio di circo coperto da detrito che si trova in condizioni di permafrost ancora oggi. Presumiamo che questo rock glacier si sia sviluppato da un piccolo ghiacciaio di circo alimentato da valanghe in una fase di ritiro a causa del mancato trasferimento alle acque di fusione dei sedimenti trasportati dal ghiacciaio».
K. Krainer et alia, Id.
Ciò che sorprende, peraltro, è che questo rock glacier presenta caratteristiche morfologiche differenti rispetto al rock glacier ospitato nel Cadin di Croda Rossa. Innanzitutto, si trovano di tanto in tanto delle piccole depressioni, quasi delle doline; come se il ghiaccio sottostante le rocce fosse ceduto e/o si fosse formato un imbuto naturale/inghiottitoio (fig. 48 e 49).
Sorprendono, inoltre, le dimensioni di questo rock glacier. Krainer stabiliva che
«the rock glacier is 850 m long, 300-550 m wide and covers an area of 0.3 km2. The rock glacier extends from an altitude of 2340 m at the front to about 2500 m. The average gradient of the surface is 5°».
Tali misurazioni, confrontate con i primi rilievi svolti da Rictcher nel 1888, mostrano una regressione dell’apparato glaciale di una decina di metri. Nella parte centrale del rock glacier, si percepisce una divisione in due lobi; notiamo infatti ghiaie più “fresche”, risultato di un certo dinamismo sulla superficie… tale linea segna la demarcazione tra i due lobi e, nella parte apicale del rock glacier, emerge chiaramente il ghiaccio esposto, corrispondente con il margine sinistro del lobo meridionale (fig. 50).
Incredibile pensare che, in alcune zone del rock glacier, il sedimento che ricopre il ghiacciaio è davvero poco spesso; secondo Krainer
«in the upper part massive ice is exposed during the summer months at several places below a less than 1 m thick debris layer. Locally the debris layer is only about 10 cm thick».
Tant’è che, a parere dello scrivente, la definizione di rock glacier non sembra propriamente calzare al caso di specie… più che rock glacier, questo apparato sembra un vero e proprio ghiacciaio sormontato da una copertina di detrito. Un mantello che preserva il ghiaccio sottostante sicuramente da oltre un secolo; già nel 1907, infatti, il glaciologo Marinelli descriveva il ghiacciaio come quasi completamente coperto di detrito superficiale. Lo stesso asseriva il glaciologo Lesca nel 1974, rilevando che il ghiacciaio era «per gran parte ricoperto da morena superficiale» (Lesca, Id.). Ciò è confermato dalla visita all’incantevole e tipico laghetto termocarsico, collocato sul lobo settentrionale, poco più a valle. Il lago presenta inclinate pareti di ghiaccio esposto e compatto, alte fino a venti metri sul versante idrografico sinistro della valle, che “letteralmente” si sciolgono al sole riversando acqua dentro il bacino. Sottolineo il concetto di “ghiaccio compatto”, per nulla mescolato al detrito, confinato al solo margine superiore delle pareti. Man mano che il ghiaccio si scioglie, precipitano dentro il laghetto le rocce che costituiscono lo strato superficiale del rock glacier, quasi vi fosse un preciso equilibro tale per cui la profondità del laghetto non può incrementarsi, perché la quantità di acqua di fusione riversatavi è in rapporto perfetto con la quantità di rocce che vi crollano dentro (fig. 51, 52, 53). Affascinante pensare che il ghiaccio che vediamo e tocchiamo risale alla Piccola Era Glaciale, ad un periodo quindi compreso tra la metà del XIV e la metà del XIX secolo (ISPRA, Note Illustrative della Carta Geologica d’Italia – Foglio 016 Dobbiaco, pag. 175).
Una curiosità: studiando le immagini satellitari messe a disposizione dal servizio BING, scopriamo che, nell’agosto del 2015, il laghetto termocarsico aveva pure un fratellino!!! Evidentemente, il tappo di ghiaccio sul fondo si è poi sciolto, facendo defluire l’acqua nei meandri sotterranei del ghiacciaio.
Dopo aver contemplato con meraviglia il laghetto, ci dirigiamo verso la fronte del rock glacier. Questa è alta almeno 30 metri e ben ripida (35°/40°), al punto che dobbiamo procedere lungo il perimetro della fronte, sul lobo meridionale, la cui fronte è meno ripida di quello settentrionale, fino a raggiungere un pendio di altezza più contenuta per poter scendere, non a fatica (fig. 54).
Abbandonata definitivamente l’area del ghiacciaio, ci teniamo ora sulla destra, a ridosso dello sperone orientale delle Cime Campale (fig. 55), scendendo comodamente lo scosceso pendio tra radi mughi, fino ad incrociare nuovamente la radura popolata da vacche al pascolo. Di lì, per la via dell’andata, è d’obbligo una sosta ristoratrice a Malga Stolla. Nel giro di un’oretta, sempre per la stessa via dell’andata, si rientra al parcheggio presso Cimabanche.
DIFFICOLTÀ COMPLESSIVA: E DURATA: 3,30h (1,30h per giungere in Ra Montejela) – DISTANZA: 7,25km – DSL: 693m+
DATA: 19 ottobre 2020
PREMESSE
Il gruppo della Croda Rossa continua ad esercitare su di me un’attrazione come mai, in precedenza, altre montagne. Comincio ora a cogliere il significato profondo di quelle frasi, pronunciate dai grandi alpinisti del passato, che restarono “stregati” e “catturati” dal fascino della Croda Rossa. Non sono parole proferite a caso. Uno tra tutti, Marino Dall’Oglio, mancato ottantanovenne nel 2013, ha dedicato la sua vita all’esplorazione di tale gruppo montuoso. Quanto a me, il potere attrattivo della Croda Rossa è ascrivibile a molteplici fattori. Sarà che è un gruppo montuoso selvaggio e, tendenzialmente, poco frequentato, complice il fatto che pochi sono i sentieri “ufficiali” che lo traversano. La causa, verosimilmente, sta nel fatto che la Croda Rossa, per via della sua roccia friabile o, come si usa dire, “marcia”, non è meta particolarmente ambita per chi pratica l’arrampicata. Sarà, poi, per via della sua conformazione geologica, che io sono solito definire, informalmente, “dolce”. Spesso, le Dolomiti vedono sorgere le proprie imponenti pareti da ripidi declivi boschivi o ghiaiosi. Nel caso della Croda Rossa, invece, alla base delle pareti rocciose si possono talvolta trovare verdi pascoli e amene radure prative in falsopiano (penso a Lerósa), magari costellate di graziosi laghetti alpini (penso all’Alpe di Fosés). Il tutto condito da una fauna che regna indisturbata, grazie alla rara frequentazione del comune escursionista che non ama – per fortuna – uscire dagli ufficiali sentieri tracciati, e da una flora unica; in merito, non può non suscitare profonda emozione camminare tra pini cembri antichi fino a cinque secoli e più. Infine, ai più sensibili, non potrà sfuggire che proprio in una grotta tra queste recondite pareti la predestinata principessa Moltina dell’epica Saga dei Fanes fu allevata e cresciuta dall’anziana Anguana… Tutto questo è la Croda Rossa: un gruppo montuoso che cela tra le proprie colorate vette ampie e remote valli. Quest’estate, mi sono cimentato nell’esplorazione del Valon de Colfiédo, di Valbónes e Valbónes de Inze, e della Val de Gòtres. Oggi sono andato alla scoperta di una nuova valle: Ra Montejèla, nota anche come Val Montesela, un ampio vallone compreso tra le pareti di Ra Geralbes e la Pala de Ra Fedes. Una curiosità etimologica: nonostante Paul Grohmann la chiamasse nel 1862 “Val Monticello”, interpretandone erroneamente il nome, il termine Montejèla (o Muntejèla, in badiotto) significa, invece, “piccolo pascolo” (nella lingua ladina infatti, “mónt”, sostantivo femminile, significa “pascolo alpestre”).
RELAZIONEDELL’ITINERARIO
Abbandonata l’auto presso il parcheggio del Rifugio Malga Ra Stua, 1695m, si procede per poche decine di metri lungo il sentiero n. 6, fino a superare l’innesto della mulattiera militare che conduce, con sentiero n. 8, a Forcella Lerósa. Si lascia quindi il sentiero n. 6 e si devia sui prati a monte del medesimo, individuando, in direzione NO, una nitida traccia che solca un piccolo dosso erboso, ai margini del bosco. In prossimità della traccia, si individua anche agevolmente un picchetto di legno con segnavia rosso, infisso a terra. Si entra nel bosco e si procede verso NO, mantenendo, per un centinaio di metri, una traiettoria tendenzialmente parallela al sentiero n. 6, più a valle. Prima di incontrare il Ru de re Cuódes (dall’ampezzano: “rio delle cuódes”, le pietre che si utilizzavano per affilare la lama delle falci), il cui suono d’acque già ci accompagna, nei pressi di una piccola radura erbosa, si inizia a salire in direzione E-SE, perdendo ogni riferimento di traccia.
Si prende quindi leggermente quota, procedendo lungo una linea di crinale che, tra antichi pini cembri ed alti abeti, conduce ad un’ampia radura prativa. La si traversa, mirando ora verso N – NE, fino a trovare, dopo i primi passi nel bosco, una chiara traccia che scende fino a intersecare le prime acque sorgive del Ru de re Cuódes.
Si accede quindi al rio, non senza qualche fatica, superando tronchi d’alberi schiantati, e lo si guada agevolmente procedendo su traccia verso N.
La traccia diventa ora larga e ben definita, quasi fosse una mulattiera e, superato un antichissimo pino cembro monumentale, piega leggermente verso NE, sino a condurre al Pian de Socroda (dall’ampezzano: “il pianoro sotto la montagna”, dove si allude evidentemente alla Croda Rossa), 1910m.
Si traversa ora il Pian de Socroda in direzione NE, per giungere alle prime lingue di frana che iniziano ad invaderne il margine superiore. Qui si intravedono alcuni ometti che indicano la via da seguire, camminando sul letto della frana.
Pochi metri e, sulla sinistra, due ometti indicano con precisione chirurgica la “porta” da varcare, abbandonando la frana ed immettendosi in una fitta macchia di pini mughi, in direzione N: è il c.d. sentiero “0”, oggi ufficialmente chiuso, che metteva in comunicazione Lerósa con il sentiero n. 26, nei pressi della Crosc del Grisc.
A questo punto, dopo aver salito per alcune decine di metri l’evidente traccia del sentiero “0”, è necessario abbandonarlo svoltando con decisione a destra, direzione NE. Il punto di svolta non è indicato e la traccia non è visibile. La soluzione più “comoda” implica di arrivare pressoché ai piedi di Ra Geralbes o Ra Jeràlbes (combinazione dall’ampezzano jèra “ghiaia” e dal latino albus “bianco”, stante a significare “la montagna dalle ghiaie bianche”), per poi deviare sulla destra costeggiando la parete. In alternativa e con via un pochino più audace, è possibile traversare direttamente il ripido pendio prativo più a valle della parete di Ra Geralbes.
Con un po’ di cautela, si traversa quindi il ripido declivio erboso, acquistando altitudine, fino a portarsi alla base di un salto roccioso alto un paio di metri. Invece di superarlo con facilissima arrampicata, ho preferito procedere alla sua base, salendo gradualmente verso destra sino ad incontrarne la fine e rimontarlo senza fatica alcuna. A questo punto, mi convinco che la corretta via debba effettivamente trovarsi sopra il piccolo salto roccioso. Tanto meglio: un’avventura alpina senza un pizzico di “ravanage” non è un’avventura!
Ci si trova ora, ai piedi della parete di Ra Geralbes, in una piccola conca, chiamata “Madonna della Solitudine”, con riferimento ad una statuetta votiva ivi collocata. Esplorando la piccola conca, sulla parete più interna di Ra Geralbes, è possibile individuare la vecchia scritta con freccia “Stua”, segno che, nei tempi che furono, ci doveva essere una qualche traccia che scendeva dal crinale prativo sovrastante la conca (ed infatti, salendolo in ricognizione, si notano i segni di un vecchio sentiero sull’erba). Dalla Madonna della Solitudine si risale il declivio coperto di sassi instabili per ritrovare una nitida traccia che conduce a Ra Montejela.
fig. 12 La salita tra massi instabili.fig. 13 L’evidente traccia che conduce a Ra Montejela.
È trascorsa poco meno di un’ora e mezza, con una distanza coperta di 3km, ed eccomi alle porte di Ra Montejela, una magica e remota valle racchiusa tra le colorate pareti S di Ra Geralbes e le innevate pareti N della Pala di Ra Fedes. L’ambiente è magico, il panorama indescrivibile, la giornata meravigliosa. Chi visita questa paradisiaca valle desolata? Nessuno! Una volta, sorgeva un bivacco: il bivacco fisso Pia Helbig Dall’Oglio, moglie del compianto Marino Dall’Oglio, inaugurato il 19 settembre 1965. Doveva servire da ricovero per gli alpinisti desiderosi di raggiungere la vetta della Croda Rossa. Purtroppo, il bivacco divenne meta di qualche screanzato e, negli anni degradò a discarica. Fu quindi smantellato nel 2013, anno della morte del suo fautore, Marino Dall’Oglio. La demolizione del bivacco, combinata con la chiusura ufficiale del sentiero “0”, han certo ridotto drasticamente l’afflusso di escursionisti a Ra Montejela. Inoltre, la valle appare priva di agevoli forcelle che permettano di valicarne le pareti di contorno. Il solo valico ipotizzabile è costituito dalla Forcella Nord, che offre accesso al Cadin del Ghiacciaio. La Forcella Nord, ora innevata, appare tuttavia particolarmente ripida per una salita estiva (soprattutto, temo sia martoriata dalle scariche!!) e, per quanto ne so, ancora più ripido è l’opposto versante, al punto che dovrebbe essere necessario effettuare delle calate per discendere. Diventa sicuramente più appetibile per chi pratica lo sci alpinismo ovvero per chi intende scalare la via Grohmann. Sulla scorta di tali fattori, Ra Montejela è effettivamente un luogo selvaggio e deserto, per chi cerca, come il sottoscritto, una giornata di assoluto silenzio e contemplazione della natura.
fig. 14 L’acceso a Ra Montejela.fig. 14 La parete S di Ra Geralbes.fig. 15 Panoramica su Ra Montejela, dalla parete N della Pala de ra Fedes alla parete S de Ra Geralbes.fig. 16 Vista sulle Tofane.
Addentrandosi nella valle, si procede, dapprima, con continuo saliscendi per piccole conche prative; trattasi delle increspature frontali della colata di un antico rock glacier, probabilmente d’epoca Tardiglaciale (10.000 anni fa), ormai immoto e coperto di uno strato erboso. Superata l’antica fronte del rock glacier estinto, si accede alla sezione centrale della valle, più rocciosa, costellata di tanto in tanto da isolate macchie di pini mughi.
fig. 17 La prima parte della valle, caratterizzata da piccoli dossi erbosi.fig. 18 Il masarè nella parte centrale della valle. fig. 18 La ripida Forcella Nord.fig. 19 Dettaglio della Forcella Nord e antecima della Croda Rossa.fig. 20 L’elegante camoscio che mi ha cortesemente fatto compagnia per tutta la durata della mia permanenza in Ra Montejela.
Giunto al limite di Ra Montejela, i pendii iniziano a salire. È il momento di tornare; il tiepido sole ottobrino, grazie alla rifrazione del manto nevoso, mi scalda piacevolmente e procedo in maniche corte, con vista panoramica sul Lavinores, 2411m, e sulla Croda de Antruiles, 2405m… una condizione di benessere unica ed esaltante, in perfetta sintonia con la natura, osservato costantemente da un vigile camoscio, padrone della valle, a poche centinaia di metri.
fig. 21 Ripercorrendo la valle, verso il suo imbocco.
Giunto alla soglia di Ra Montejela, vi sono due possibilità di rientro. La prima, chiaramente, è ritornare sui propri passi, scendendo per la “Madonna della Solitudine”. Per mia natura, però, sarei un tipo da giri ad anello. Opto quindi per la seconda possibilità: scendere traversando le ghiaie della Pala de ra Fedes, mirando a Lerósa. Confesso che non era nei piani, memore anche di aver letto sulla guida Camillo Berti del 1991 la seguente considerazione: “non lasciarsi indurre ad abbreviare la prima parte del percorso traversando direttamente verso S dal bivacco Pia Helbig Dall’Oglio: l’attraversamento della colorata frana è inutilmente faticoso e pericoloso“. Di diverso avviso, invece, era Paolo Beltrame che, nella guida “Dolomiti. Croda Rossa D’Ampezzo – 101% vera montagna”, 2008, descrive il sentiero che supera lo spigolo di ingresso a Ra Montejela (nel mio caso, la via di uscita dalla valle) come “evanescente a causa del terreno franoso (disagevole ma per niente pericoloso)” e la traccia che traversa poi il ghiaione come “evidente quando scorre su ghiaie mentre tende a scomparire quando attraversa tratti di sassi più grossi; in questo caso fanno da segnavia gli ometti costruiti sul posto“. Faccio quindi una timida ricognizione ai margini della frana e, non scorgendo passaggi particolarmente ostici, mi sento di sposare l’interpretazione del Beltrame. Inoltre, il pensiero di scendere, là dove sono salito, per il ripido pendio erboso, mi convince senza dubbio a preferire la traversata del ghiaione! Tale convinzione è prontamente consolidata dalla vista di una tenue traccia che incide debolmente la frana.
fig. 22 Il ghiaione da traversare e la meta: i prati di Lerósa.fig. 23 Sceso un breve tratto erboso, ai margini della frana, si intravede la traccia.fig. 24 La traccia diventa sempre più nitida.
Si taglia procedendo su cedevoli ghiaie, ma sempre con una pendenza poco sostenuta, tale da permettere un incedere sicuro e mai troppo faticoso, fino addirittura a trovare diversi ometti che indicano la via!
fig. 25 I primi ometti!
Il gioco sembra fatto quando ci si trova di fronte una sorpresina, già visibile dai margini di Ra Montejela: l’acqua ha eroso il ghiaione scavando una tipica V che interrompe bruscamente la traccia! Nessun problema: vorrà dire che scenderò lungo il canale scavato, tenendomi sul bordo orografico destro, fino a che i margini diminuiranno di altezza e sarà semplice attraversarlo. Seguirò poi l’estrema lingua della frana per attraversare i mughi e spuntare in un’amena radura di Tremonti, semipaludosa, che già ho avuto modo di visitare in passato. Alternativamente, volendo scegliere una soluzione più comoda, è possibile abbandonare la discesa sulla lingua franosa spostandosi più a sinistra, individuando nella linea di baranci un varco, su evidente traccia.
fig. 26 Il ghiaione eroso interrompe la traccia.fig. 27 Ecco il percorso che ho scelto!fig. 28 Ed ecco il percorso completo di discesa da Ra Montejela.
Giunti alla radura, si prosegue in direzione S, traversando un rio (oggi asciutto), fino ad intravedere il Casón di Leròsa, dove mi aspetta una deliziosa fonte di acqua sorgiva.
fig. 29 Poco prima del guado, mirando la Croda de R’Ancona, 2366m.fig. 30 Prossimi al Casòn di Leròsa.fig. 31 Il Casòn di Lerósa.fig. 32 La sorgente di Lerósa.
Dal Casòn di Lerósa, tagliando verso O per dolci prati, si finisce per intersecare la mulattiera sentiero n. 8 e, in una decina di minuti, si giunge al Rifugio Malga Ra Stua.
NOTA FINALE: come anticipato in sede introduttiva, l’itinerario descritto potrebbe essere definito come E. La scelta di attribuirgli la classificazione EE è dovuta alle seguenti valutazioni: 1) nella prima parte, l’itinerario si svolge in mezzo al bosco, senza alcuna traccia. Si richiede, quindi, una certa capacità di orientamento o, comunque, l’utilizzo dell’apposita tecnologia che segni la propria posizione sulla mappa; 2) abbandonando il sentiero “0” per dirigersi verso la “Madonna della Solitudine”, si taglia un ripido pendio erboso, privo di traccia, che richiede pazienza e passo fermo. Probabilmente, la via scelta non è corretta; la valutazione, tuttavia, è svolta sulla traiettoria da me compiuta, non su un’ipotetica soluzione alternativa; 3) l’attraversamento della frana/ghiaione, pur non presentando particolari rischi, richiede in alcuni punti passo fermo ed equilibrio, a causa dell’instabilità del terreno; 4) traversata la frana, per potersi immettere nella radura di Tremonti, è necessario lottare per poche decine di metri dentro una fitta macchia di pini mughi. Nulla di impossibile o difficile ma si richiede una certa “flessibilità mentale” 🙂
DIFFICOLTÀ COMPLESSIVA: EE DURATA: 9 h – DISTANZA: 20 km – DSL: 1457m +
DATA: 13 settembre 2020
PREMESSE
L’anello in questione prevede la traversata in salita del Valon de Colfiédo, fino a forcella Colfìédo, 2721m, ed in discesa di Valbònes e Valbònes de Inze. Il Valon de Colfiédo e Valbònes, in particolare, sono due ampi ghiaioni non solcati da alcun sentiero o traccia. Trattasi, quindi, di una traversata alpinistica che, oltre al rilevante impegno fisico richiesto, prevede una salita ed una discesa su ghiaie sempre instabili, con una pendenza leggermente sostenuta negli ultimi 100m prima della forcella. L’ambiente è selvaggio, severo, assolutamente non frequentato. In inverno, i due versanti diventano meta gradita per chi pratica lo sci alpinismo ma, in estate, sono luoghi veramente remoti. L’accesso alle prime ghiaie del Valon de Colfiédo, sul versante settentrionale dell’omonimo monte, non è per nulla scontato, soprattutto a causa dei continui smottamenti che modificano il greto del torrente da cui diparte la traccia (noi abbiamo sbagliato ben tre volte prima di trovare la traccia nel bosco, e ciò ci è costato sforzi inimmaginabili ed un’oretta e mezza di giri a vuoto tra fitti mughi ed improbabili pendii! Alla fine abbiamo trovato una traccia che eravamo ormai alla base del monte Colfiédo!!! D’altro canto, il fascino delle escursioni proposte su WINDCHILI è proprio questo: avventurarsi e “scoprire”. L’impegno fisico richiesto è in ogni caso appagato dalla maestosità di tali luoghi, spettacolari, poco conosciuti e ricercati (la prima traversata in sci risale solo al 1966 e con le ciaspe al maggio del 1972). Una nota fondamentale: l’itinerario a seguire rappresentato non è sicuramente l’itinerario migliore ma solo l’itinerario che io ed il mio compagno di avventure Paolo abbiamo scelto, a istinto, sul momento. Chi volesse applicarsi potrà di per certo individuare una traiettoria più diretta o agevole. Ciò detto, chi gradisse confrontare il seguente itinerario con una voce certamente più autorevole in materia, potrà trovare una dettagliata relazione del medesimo sull’eccellente guida “Dolomiti. Croda Rossa d’Ampezzo. 101% vera montagna”, 2008, di Paolo Beltrame.
RELAZIONE DELL’ITINERARIO
Proveniendo da Cortina, si lascia l’auto, poco prima di Passo Cimabanche, in un piccolo parcheggio sulla sinistra, a 1511m, pochi metri dopo il Lago Negro, sito sull’opposto lato della strada. Si imbocca, quindi, il sentiero n. 8, su ampia mulattiera militare. Dopo il primo curvone, che devia decisamente a SW, si prende una vaga traccia che, subito scomparendo, risale il bosco in direzione NE, verso le pendici del monte Colfiédo. Si traversa il bosco mantenendo sempre la direzione NE, superando diversi alberi schiantati. La traccia si ritrova saltuariamente, specialmente là dove l’erba cede il passo a vecchie frane, dove il minimo segno di un risalente calpestio è rimasto impresso a terra.
fig. 1 Procedendo “a naso” nel bosco di abeti e pini cembri.fig. 2 Superando i vari tronchi schiantati.fig. 3 Amanita Muscaria.
Ci si imbatte in diversi bunker militari non segnati sulla carta Tabacco. La traccia da tenere traversa una decina di metri a monte del primo bunker, superando una breve area di antichi tronchi morti di pini cembri (suppongo).
fig. 4fig. 5
Si giunge pochi metri a monte di una fessurazione in cemento armato che conduce alla bocca di un nuovo bunker. Probabilmente, ospitava un vecchia teleferica per trasportare l’artiglieria pesante da Cimabanche? O forse rappresentava una gola artificiale per sparare proiettili di grosso calibro a breve distanza sul passo? In ogni caso, dovrebbe trattarsi di installazioni militari costruite intorno agli anni ’30, per proteggersi da un eventuale attacco nemico. Da questo punto, è possibile riprendere la traccia e mantenersi nel bosco per ancora poche decine di metri oppure, come noi abbiamo preferito, uscire dal bosco ed immettersi direttamente sul greto del torrente che scende dal Valon de Colfiédo. Si procede, quindi, in direzione del Valon de Colfiédo, guadando agevolmente il torrente di tanto in tanto.
fig. 6 La singolare gola artificiale che termina su una feritoia di un bunker.fig. 7 Il percorso sul greto del torrente e la traccia alternativa che si immette in esso, proveniente dal bosco, con evidente ometto. fig. 8 Si inizia ad intravedere la lontana forcella de Colfiédo.
Si procede addentrandosi nella gola. Sporadicamente, si notano degli ometti che ci rincuorano.
fig. 9 Un primo ometto…fig. 10 Si tiene la sinistra, camminando su comode ghiaie.fig. 11a … poi sempre meno comode…fig. 11 All’orizzonte, le Tre Cime di Lavaredo.
Finché si vedono ometti, significa che va tutto bene. Da quando non si vedono più, significa che bisogna porsi qualche domanda… noi ce la siamo posta ma non abbiamo trovato la soluzione corretta, e siamo giunti alla base di un salto roccioso con cascatella, nei cui pressi, dal monte Colfiédo, scende una ruscelletto che si immette nel rio principale. Già a questo punto, abbiamo sbagliato qualcosa. Sulla sinistra (destra orografica del torrente), non abbiamo notato alcuna traccia che risaliva il costone della gola, quasi sempre franato. È in quel tratto, tra l’ultimo ometto visibile ed il salto di roccia dove la gola si restringe, che deve esserci una qualche traccia che sale nel bosco in direzione O. La già citata guida P. Beltrame, 2008, riporta come segue: “intorno alla quota 1745m, la tracce si infilano tra i mughi non intricati e, con incremento di pendenza, continuano allontanandosi di poco dal torrente fino ad incontrare un rigagnolo d’acqua (c. 1780m, presenza di alcuni vecchi tubi per la raccolta d’acqua)“. Non trovando la menzionata traccia, noi abbiamo proceduto a tentativi. Purtroppo, a complicarci la vita, gioca a mio avviso anche un errore cartografico che ci ha tratto in inganno, e che a seguire rappresento dettagliatamente. ATTENZIONE: riporto i tentativi svolti solo affinché qualcuno non ripeta gli errori da noi compiuti. Invito seriamente chi si cimentasse in tale escursione a non ripercorrere i nostri passi ma a trovare la traccia corretta poco più a valle.
fig. 12 In questo tratto deve rinvenirsi, sulla sinistra, la traccia corretta.fig. 13 Paolo attraversa il ruscelletto che si immette nel rio principale, alla base della piccola cascata con restringimento della gola. Quasi sicuramente, la traccia corretta è ormai già diversi metri a valle di questa confluenza d’acque. fig. 14 Cartografia Tabacco aggiornata 2020fig. 15 Immagine satellitare Google Maps aggiornata 2020. Sopra la linea rossa si distingue il corso del ruscello, sormontato dai pini mughi. Nell’area inclusa nell’ovale è invece distinguibile lo smottamento del costone che porta il ruscello a confluire direttamente sul rio principale, coordinate 46.628378, 12.167378.
Ciò detto, il primo tentativo ERRATO mi ha portato a scalare il primo salto di roccia sul restringimento di gola, per verificare l’esistenza a monte di qualche ometto. La prima parete è alta infatti circa tre metri ed è agevolmente superabile sia sul lato orografico destro che sinistro del rio. Peccato che, giunti alla sommità della prima cascata, ci si trovi di fronte ad ulteriori due salti di roccia, di almeno dieci metri l’uno, il cui superamento in sicurezza mi ha lasciato piuttosto perplesso. A confermare l’erroneità della scelta, la totale assenza di ometti. Conclusione: risalendo dentro la ripida gola attraverso la cascata, non si va da nessuna parte!
fig. 16 Il primo salto di roccia, dove si forma la cascatella, la cui scalata si è rivelata totalmente inutile!
Proviamo, quindi, a svolgere un secondo tentativo, ERRATO (e folle): la risalita del ruscello che si immette sulla destra orografica del rio principale. Una vera pazzia che ci prosciuga di ogni energia. Si tratta di strisciare, letteralmente, sotto i robusti rami di mughi alti anche due metri, con immani sforzi per piegare i rami là dove sbarrano completamente l’accesso (ovunque). Sicuramente è più semplice penetrare una giungla tropicale (anche perché lì si usa il machete, mentre qui dobbiamo farci strada a braccia nell’inestricabile bosco pungente, camminando sul greto infido del ruscello). L’idea è di risalire il ruscello fino alla fine per poi deviare a sinistra fino a trovare qualche probabile traccia là dove scendono gli scialpinisti in inverno. Conclusione: non ha senso fare uno sforzo così immane aprendosi un varco tra i fitti mughi dentro il ruscello. Sicuramente, si fa meno fatica risalendo in mezzo al bosco poco più a valle… però sono quelle esperienze che non si dimenticano e colorano la gita d’avventura e spirito WINDCHILI!
fig. 17 Risalendo il ruscello tra la vegetazione impenetrabile.
Infine, dopo sforzi sovrumani, intersechiamo una probabile traccia verso quota 2000m, qualche decina di metri più a monte della sorgente del ruscello (una minuscola radura di muschio e terra impregnata d’acqua). Ci dirigiamo quindi verso sinistra, direzione S, ed intersechiamo delle potenziali tracce, molto vaghe, che risalgono verticalmente il bosco, pur sempre transitando in mezzo a mughi che, però, risultano ora più radi e meno vigorosi!
fig. 18 Finalmente, individuata una debole traccia che risale il bosco.
Si scende ora in una piccola conca prativa per poi risalire leggermente su traccia più nitida che con una curva decisa rimonta il costone boschivo e si dirige verso N-NO, fino ad incontrare nuovamente ometti ed un simpatico nastrino colorato che rincuora dopo tanta fatica.
fig. 19 Discesa nella piccola conca prativa.fig. 20 Lieti di aver ritrovato la traccia 🙂
La traccia costeggia ora le pendici N del monte Colfiédo, traversando agevolmente brevi lingue franose.
fig. 21 Si procede su agevoli ghiaioni sulle pendici N del monte Colfiédo.fig. 22
Il panorama inizia a deliziarci con il suo ampio respiro: la Croda Rossa, 3146m, svetta imponente, bilanciata più a E da Punta del Pin, 2682m. La direzione che preferiamo seguire è ora un grande masso sormontato da un audace piccolo cirmolo.
fig. 23 Lo spettacolare profilo della Croda Rossa ed il masso che optiamo di seguire.fig. 24 Finalmente usciti dal perimetro dei mughi. Alle nostre spalle, le Tre Cime.fig. 25 Appropinquandosi al masso sormontato dal pino cimbro.
Giunti al masso sormontato dal pino cimbro, ai cui piedi giace una scheggia di granata della prima guerra mondiale, si è ormai prossimi all’entrata nel ghiaione.
fig. 26 La scheggia di granata.fig. 27 Scheletro di… una volpe?fig. 28 Il ghiaione da risalire, in tutta la sua lunghezza!
Incomincia ora la parte più faticosa dell’itinerario. Non tanto per il dislivello che bisogna ancora coprire ma per il terreno su cui bisogna affrontarlo. Le ghiaie sono infatti instabili e più si avanza più la pendenza aumenta. Con tutta la delicatezza del caso, ad ogni passo l’appoggio perde comunque stabilità e bisogna lottare con tutte le articolazioni e i muscoli del corpo per incrementare la quota.
fig. 29 Il Valon de Colfiédofig. 30 La forcella di Colfiédo si distingue ora chiaramente.fig. 31 Imboccato il solco alluvionale rossastro nel tratto finale.fig. 33 Ultimi sforzi.
Arrivati in forcella Colfiédo, 2721m, si apre uno scenario grandioso sul versante O, mozzafiato, che abbraccia Ra Valbònes (tradotto dall’ampezzano: “le valli buone”), sovrastata dalla maestosa Pala de Ra Fedes. Leone Sinigaglia, risalendo il vallone tra il 1893 e il 1895, scriveva: “la parete fa da mirabile sfondo alla valle deserta, con il suo anfiteatro selvaggio, con la sua ripidissima serie di bastioni e l’aguzza punta, coi giganteschi canaloni che la solcano per ogni verso e la sua larga base fasciata da un enorme campo di ghiaioni… di cui pregustiamo fin d’ora la dolcezza” (L. Sinigaglia, Ricordi di arrampicate nelle Dolomiti – 1893-1895, ed. La Cooperativa di Cortina, 2003).
fig. 34 Vabònes e la Pala de Ra Fedes.fig. 34 In direzione N, la cima della Croda Rossa, 3146m, si tocca con un dito.fig. 35 Il sole fa capolino dietro la cima di Ra Sares, 2804m, a portata di mano.fig. 36 Il Valon de Colfiédo, ormai alle spalle.fig. 37 Foto di rito in forcella con l’amico Paolo.
Ed ora inizia la discesa! Il versante O che scende su Ra Valbònes è, nel tratto apicale, moderatamente più ripido del versante E. Il terreno del ghiaione, chiamato anche Graon de Inpó Castel (tradotto dall’ampezzano: “il ghiaione dietro il castello”), è sufficientemente mobile da abbozzare cautamente una sciata! Il mio consiglio è di scendere in diagonale partendo dalla base della parete di Ra Sares. Si superano così agevolmente i primi ripidi metri e si abbandona il lato più a destra, verso la Croda Rossa, che ha una pendenza molto sostenuta.
fig. 38 Il tratto sommitale del ghiaione di Valbònes, subito sotto la forcella.fig. 39 Divertente discesa del ghiaione.
Verso N, il panorama spettacolare della Pala de Ra Fedes e della vastità dei suoi ghiaioni.
fig. 40 La Pala de Ra Fedes sovrasta la Valbònes.
Tanto abbiamo impiegato per salire in forcella, quanto bastano pochi minuti di sciata su ghiaione per trovarsi al cospetto del Castel de Ra Valbònes.
fig. 41 Alle spalle, la Valbònes e la forcella Colfiédo.fig. 42 Il Castel de Ra Valbònes; sul fianco erboso si distingue chiaramente il sentiero da imboccare.fig. 43 Prossimi al Castel de Ra Valbònes, si aprono ai nostri occhi i famigliari profili del Becco di Mezzodì e del Nuvolau.
Ai piedi del Castel de Ra Valbònes, si imbocca la ben nitida traccia (non segnata sulle carte), con tanto di ometto (da quanto tempo!) e ci si dirige verso S.
fig. 44 La traccia da prendere verso S.
Si aggirano quindi le pendici del Castel de Ra Valbònes, virando verso O, per trovarsi dinnanzi ad un nuovo ghiaione da traversare agevolmente, avendo cura di non perdere quota, per raggiungere la sella prativa che offre accesso alla Valbònes de Inze.
fig. 45 La meta è la sella prativa che permette di accedere alla Valbònes de Inze.fig. 46 Il ghiaione si supera trasversalmente senza alcuna difficoltà considerata la scarsa pendenza.
Terminato il ghiaione, in breve si raggiunge la sella erbosa, con magnifica vista sull’amena e verde Valbònes de Inze. All’orizzonte, da destra, si distingue il Bechei di Sopra, 2794m; Forcella Ciamin; Cima Dieci, 3026m; Cima Nove, 2968m.
fig. 47 Il panorama sulla Valbònes de Inze.fig. 48 Il Monte Sorapis incorniciato.
A questo punto, è possibile attraversare interamente la Valbònes de Inze oppure prendere come riferimento un paio di pini cembri che sorgono sul bordo S del catino (si distinguono in fig. 47) e scendere con via più diretta ma sicuramente più ripida tra agevoli salti di roccia ed erba sino al Casón de Leròsa, 2035m
fig. 49 Pini cembri secolari nella tipica zona di gradoni erbosi tra Valbònes de Inze e Leròsa.fig. 50 Fino ad intravedere il Casón di Leròsa!fig. 51 fig. 52 Cavalli allo stato brado pascolano sotto la Pala de Ra Fedes.
Rifocillati alla sorgente presso il Casón de Leròsa, si può ora scendere comodamente lungo la mulattiera militare che traversa forcella Leròsa, zona di importanza strategica durante la prima guerra mondiale per la presenza di un importante avamposto militare. Sulla sinistra, si supera ciò che resta del cimitero austriaco che accolse 95 caduti di diverse nazionalità (poi esumati dopo il conflitto e trasferiti presso l’ossario del Passo Pordoi). Si procede quindi la discesa attraversando la Val de Gòtres. Si perde drasticamente quota e, poco sopra i 1600m, si intersecano le tre sorgenti del Rufiédo, di cui la prima impressione per la portata, specie considerando che queste acque provengono dagli alti circhi della Croda Rossa, appena traversati, e confluiscono per via sotterranea, fino a questo luogo. Da lì in breve, si giunge al parcheggio dove si è posteggiata l’auto.
fig. 53 La prima e più impetuosa sorgente del Rufiédo.
Per ulteriori spunti, consiglio la lettura della relazione del mio compagno d’avventura Paolo e la rappresentazione virtuale dell’itinerario su mappa!